[RECENSIONE] “DESIGNATED SURVIVOR, 60 DAYS”

Un ex ministro, rimosso dall’incarico poche ore prima di un attentato, si ritrova a dover gestire il suo Paese in veste di Presidente. Se questo incipit e il titolo non vi suonassero originali è perché il k-drama in questione si ispira alla serie statunitense omonima, ma con molteplici differenze.

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È necessario stabilire sin da subito le principali dissomiglianze: negli Stati Uniti, subito dopo l’attentato, il sopravvissuto viene designato come nuovo Presidente e rimane in carica per lungo tempo (ecco perché, a oggi, ci sono ben tre stagioni), mentre invece in Corea del Sud diviene Presidente Ad Interim solo per 60 giorni (ecco il motivo della dicitura nel titolo). Una differenza abissale. Se nei 53 episodi statunitensi ci si imbatte in problemi disparati (l’attentato, una epidemia, le sette separatiste, il razzismo), in quello coreano si delinea un arco narrativo che punta a far emergere le difficoltà oggettive del personaggio che oltre alla complessità nel vestire i panni del Presidente, deve recepire il sistema politico tutto e scoprire chi c’è dietro al disegno oscuro dell’attentato.

Il Contenuto

Il ministro dell’ambiente Park Moo-Jin (interpretato dal poliedrico attore cine-televisivo Ji Jin Hee) viene sollevato dall’incarico e la sua carriera termina con scarso successo politico dopo pochi giorni di attività governativa. Il licenziamento lo salva dall’attentato ed essendo l’unico membro sopravvissuto viene reintegrato e promosso subito a ricoprire il ruolo più importante e influente della Corea. Ovviamente questo inizio crea aspettative e curiosità e l’autrice della serie, Kim Tae-Hee (che non è nuova a serie di un certo spessore), parte subito con una destabilizzazione emotiva del protagonista che viene gestita in maniera quasi impeccabile.

La storia viene spalmata su 16 episodi di circa 75 minuti l’uno e si palesa la necessità dei produttori di “allungare il brodo” perché non si spiegherebbe altrimenti una mappa narrativa così prolissa e, a tratti, assai forzata. Fortunatamente l’autrice rende gradevoli tutti i personaggi, anche se taluni, per motivi legati allo story-concept, rimangono un po’ confinati nell’ombra. Tra i principali protagonisti chi spicca è certamente il segretario Cha (interpretato dal magniloquente attore Son Seokgu) che nella recitazione dimostra di essere il migliore nel cast, ma per ogni figura che si muove all’interno di questa trama ingarbugliata si nota il grande lavoro di “rifinitura” fatto dalla sceneggiatrice. Personaggi credibili dunque che però si scontrano con una vicenda che, a tratti, appare capziosa. Sì perché il tema dell’attentato è intrigante e le pedine che si mettono in gioco mostrano un paradigma narrativo completo e funzionale finché si percepisce, più o meno a metà serie, che la storia comincia ad avere qualche problematicità. Per ingannare le aspettative dei fruitori si gioca sul foreshadowing, ma in alcuni passaggi si esagera e si perde quindi il filo logico di ciò che sta accadendo, o meglio, di come siano possibili alcuni passaggi che sono inseriti in maniera un po’ forzata. Una ragnatela fitta, misteri e dubbi a iosa, un’indagine così arzigogolata che a volte sembra tocchi l’apice della figata (perdonate il francesismo) mostrandosi poi debole o scontata.

Ma chi c’è dietro all’attentato?

Forse per deformazione professionale già avevo intuito chi fosse nelle prime ore della serie tv, ma se a un certo punto mi ero ricreduto, diviene palese, almeno per i fruitori più scafati, chi muove i fili del delittuoso piano. Ovviamente il tutto viene spiegato solo nell’ultima puntata quindi armatevi di pazienza!

La Tecnica

Ciò che mi ha disturbato in molteplici occasioni è una mancanza di disciplina cinematografica. Patti chiari, amicizia lunga: chi non mastica la grammatica dell’audiovisivo non capirà di che parlo, ma per chi conosce gli stilemi cinematografici rimarrà stupito dalle innumerevoli “licenze poetiche” che il giovane regista (Yoo Jon-Sung) si prende. Gli scavalcamenti di campo sono così numerosi (e seccanti) che userò alcuni degli episodi per mostrare ai miei studenti cosa non si dovrebbe fare su un set. In un paio di occasioni anche gli sguardi tra due protagonisti non si incrociano all’interno della stessa scena e la geografica degli ambienti non sempre viene rispettata.

La fotografia non è equilibrata, forse per la celerità con cui hanno girato la serie, ma in alcune occasioni diviene fastidiosa la forte luminosità degli ambienti e il disequilibrio tra una location e l’altra ove le luci appaiono completamente differenti creando disturbo nei raccordi.  

L’atmosfera generale è discreta, ma si passa da momenti molto curati e dal sapore cinematografico a situazioni al limite della soap opera sud americana. Difficile premiare questa serie sotto l’aspetto tecnico, anche se un plauso va al sound-design sempre preciso e gradevole.

Le musiche sono coinvolgenti, ma limitate e concise, ripetute anche all’interno dello stesso episodio rendendo l’audio ridondante.

Ne vale la pena?

Sono circa 20 ore di drama, un tempo considerevole che bisogna capire se dedicarlo o meno a questa vicenda. La narrazione è altalenante, l’intreccio tra trama e sotto-trama a volte non è equilibrato e spesso autrice e regista giocano sull’attesa per creare hype nei fruitori, senza riuscirci però con successo. Un prodotto discreto, piacevole, ma forse troppo contorto. Nella media dei k-drama è una produzione “senza infamia e senza lode”.

Solo per appassionati.

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    Articolo di: Marco Paracchini

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